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Libro aperto

PER SPECULA AENIGMATIS

 

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Epigrafe

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«Non ego latine scripsi.

Lingua latina me scripsit».

 

«Non sono stato io a scrivere in latino.

È la lingua latina che ha scritto me».

 

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Nell’Epigrafe di Per specula aenigmatis il poeta mostra lo stretto legame tra la lingua latina e l’italiano. Il latino esercita ancora un’influenza sulla vita contemporanea, è presente nella nostra storia e nelle parole a tal punto che il poeta sente di essere stato scritto dall’idioma dei Romani. In questo poemetto il confronto continuo tra latino e italiano mette in relazione passato e presente: il poeta, come una moderna Sibilla, riesce a catturare le voci provenienti dalle macerie e a tradurle in versi da declamare ai suoi contemporanei.

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Radici esplodevano sul mio cenotafio

 

Radici esplodevano sul mio cenotafio.

Le sussurravo appena e trasmigravano

nei graffiti sghembi del mio epitaffio.

Davanti a me il liocorno. Imperioso mi

assale. «Scrivi, dipingi con la tua lingua

miniata: fa’ che senza fiato di luna noi

non moriamo», mi comandavano i barocchi mari.

Io dire io graffire io le mie triforcute

lame brunire. Io le mie b(o)riose glosse

cesellare: mi comandavano i tarocchi del Mare.

Rinoceronte io d’improvviso sugli effigiati

castelli a ringhiare. Per gli astri sfregiati

il liocorno a trottare. Nelle bifide crepe

della mia lingua il liocorno buie radici

a miniare. Io dire io filologizzare io decrittare.

«Scrivi i mari dipingi con il loro ringhiare

e sempre la tua afasia sepolcrale»:

da sempre mi sobilla la SIBILLA.

 

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Questo componimento del poemetto Per specula aenigmatis mostra alcuni dei tratti caratteristici dell’intera raccolta: il poeta ricorre ad un linguaggio ricercato in cui convivono termini aulici (cenotafio, miniata, barocchi) e neologismi, come il verbo filologizzare. L’accuratezza lessicale mette in risalto un mondo abitato da creature magiche (il liocorno, i tarocchi del Mare, il rinoceronte) che invitano il poeta a creare qualcosa di speciale con la sua lingua, non semplice poesia, ma un dipinto di parole (dipingi con la tua lingua miniata). Nell’ultimo verso appare l’ispiratrice dell’opera, incastonata nella paronomasia “mi sobilla la SIBILLA”.

 

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Egomet vates Sovente saepultam mei linguam

 

Egomet vates Sovente saepultam mei linguam

aliamque personam in huiusce sphaerae subluce

inquirens glaciali facunde, silvae, vos cano

in subsilvarum aenigmate iamdudum exstinctas.

Ego scurra suavis. Famulus ego crudelis qui

regis vexilla fulgentia in subnocte iucunde

ab imis rapit dis. Mea fax. Mea falx. Mea pax.

Mea arx. Hodie me ulula hodie me bubo fecunde

impinguat vorax. Camena, sublinguam. Camena

tu subpersonam alacriter volvis et acriter

in fascis unctis dissolvis. Beata tu fatua mihi

nomina destruens. Beata tu statua mea omina

construens. Ego in Suburra tibi scelera fingo

perennia. In subsole facunda mihi solum tu

pingis mendacia solemnia. Ephebus ego qui Venerem

ambit. Canens famulus ego facunde in subregno.

 

Io il vate Sovente, nella sottoluce di questa

sfera, vado da sempre cercando la mia lingua

sepolta nel ghiaccio e un'altra figura; io,

ultimo vate, a voi, selve, i miei turgidi versi

consacro, voi canto da tempo infinito sommerse

nell'enigma delle sottoselve. Io: l'istrione

soave. lo: il feroce straccione che gongolando

fugge strappando nella sottonotte le fulgide

insegne imperiali agli dei abissali. O mia

lampada. O mia falce. O mia pace. O miei templi.

O miei fortilizi. Il gufo e la civetta - oggi

ingordi m’'ingrassano. La mia sottolingua tu,

Camena. La mia sottofigura, perspicace, deponi

e beffarda scomponi in bende d'ambrosia. Tu

giochi a sbranare i miei ninnoli parole. tu, mio

oracolare altare, ridendo organizzi le mie

profezie. Nella Suburra murato, a te fingo

il mio ghetto efferato. Dal tuo sottosole spargi

uno smalto loquace sulle mie ingenue vergogne,

sulle mie brutali menzogne. L'efebo io

a Venere corteggiare. Io: lo straccione geniale

che va cantando nel/il suo sottoregno.

 

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In questi versi il poeta per la prima volta introduce se stesso in lingua latina, per questo motivo troviamo numerosi riferimenti alla sua persona, introdotta dal pronome “Io”.

La poesia presenta una ricca punteggiatura e periodi spesso brevi. Vi sono varie rime ed assonanze.

In questa lirica Sovente si paragona a vari personaggi come:

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  • l’“istrione”, che nell’antica Grecia rappresentava un attore;

  • un “vate”, anche conosciuto come “profeta”;

  • uno “straccione”, cioè un miserabile.

 

In questi versi inoltre fa riferimenti ad una lampada, alla falce, alla pace, utilizzando l’aggettivo possessivo “mio/a”, ne parla come se gli appartenessero.

Negli ultimi versi c’è un’invocazione a Camena, la musa classica della poesia latina; Sovente collega così la sua poesia a quella della tradizione latina e mostra di trarre ispirazione da un mondo antico e mitologico.

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