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LE TEMATICHE LEGATE AL TERRITORIO DEI CAMPI FLEGREI

A partire dal Settecento, i Campi Flegrei sono raffigurati come tappe fondamentali dei grandi pittori e poeti durante il Grand Tour. Il giro permetteva loro di ammirare le meraviglie del paesaggio: templi, terrazze, edifici termali, promontori e isole che tutt’ora conquistano i cuori dei viaggiatori.

Cappella, frazione di Bacoli e Monte di Procida, abbonda di reperti, odora di salsedine. Sotto la piazza principale, si estende un complesso funerario di età romana lungo la strada antica che collegava Miseno con Cuma. Questo tratto, coperto dal cemento delle case, ribolle di spiriti. Ecco cosa scrive il poeta[1] del suo rapporto con il territorio: “Fin da piccolo, avrò avuto cinque o sei anni, ho provato un forte interesse per il territorio in cui mi muovevo, il territorio flegreo così denso di natura, archeologia, storia. Vivere quotidianamente a contatto con fondali e quinte di tufo, la cui luminosità e porosità sono la quintessenza stessa di questi luoghi, e a contatto con laghi, mare, resti di terme e templi di età romana, per me bambino è stata un'autentica avventura. La gioia, in altri termini che assaporavo non solo con gli occhi ma con le mani, con il naso e non meno con l'udito, me la sono portata appresso negli anni, accresciuta e intensificata. Dico gioia, a ragion veduta, in quanto si trattava per me di mettermi in una posizione di piacere per tutto ciò che mi accadeva di vedere, di ascoltare, di annusare, stabilendosi così una perfetta equazione tra il fisico e lo psichico, tra il corpo e lo spazio, tra il teatro della natura e il teatro della mente. Registravo infinitesimali sensazioni come su una pellicola, mi facevo letteralmente prendere, possedere dai suoni, dalle voci, suoni d'acqua, voci di piante, suoni e voci di insetti che s'incuneavano tra le fessure delle pietre. A volte mi pareva davvero di camminare in una terra di nessuno, tanto e tale era il fascino che su di me esercitava quella massa ipnotica di cose liquide e di intricate forme vegetali. Ho cominciato a capire l'importanza vitale del paesaggio. Il paesaggio mi è apparso, con il passare delle stagioni in tutta la sua precarietà e inquietudine: più il colore del cielo, delle case, degli abiti cambiava, più avvertivo, sia pure in maniera impercettibile, un senso di smarrimento, di instabilità. Era come se il mio appartenere a un ben delimitato territorio si risolvesse in un inarrestabile processo di dissolvenza e dissoluzione. Eppure, il paesaggio, vale a dire quell'insieme di segni, forme, figure, restava lì, vivo e vero, liquido e pietrificato, identico e in continua metamorfosi, sorprendente e familiare. Mi ci riflettevo, sì che mi ci riflettevo, affondavano lì i miei umori, le mie radici, ma oscuramente percepivo un brulichio di forze, presenze, suggestioni. Ho poi capito, con il cosiddetto senno di poi, appunto, che il senso, un senso possibile e probabile, del mondo, della natura, del paese, del paesaggio appare.” Leggendo gli scritti di Sovente, possiamo percepire il suo profondo rapporto con la natura e l’influenza che ha avuto sul suo sentire il fenomeno del bradisismo. Sovente amava affidarsi al passato, entrava nel santuario all’acropoli di Cuma e si confidava con la Sibilla.

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Il mito narra che la Sibilla Cumana fosse una giovane di cui Apollo era innamorato, al punto da offrirle qualunque cosa lei desiderasse, a patto che diventasse la sua sacerdotessa. Lei chiese l’immortalità, dimenticandosi di chiedere l’eterna giovinezza. E così, mentre invecchiava, il suo corpo diventava sempre più piccolo, al punto che fu messa in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché non scomparve del tutto lasciando di sé solo la voce.

Sovente riesce ad ascoltare questa voce che ancora riecheggia: a fare da sfondo nelle sue opere, c’è il paesaggio mitologico dei Campi Flegrei, luogo che si esprime in suono, urla, rumore. Da un lato, quindi, c’è la realtà scossa dal bradisismo che potrebbe andare in frantumi da un momento all’altro, e, dall’altro, ci sono i suoni che provengono da un passato mitico.

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“Il paesaggio mediterraneo dei Campi Flegrei è un cronotopo”, scrive Liberti[2], in cui il bradisismo e la vulcanicità riportano alla luce tracce del passato greco-romano, personaggi mitici come Ulisse, Proserpina e la Sibilla, divinità come Demetra e Venere, città fantasmatiche come Napoli e Cuma, insieme a tragici squarci di un presente violento e corrotto.

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In un’intervista, Mario Franco[3] chiede al poeta: “È difficile essere poeti a Napoli?” E il poeta gli risponde così: “Sappiamo tutti che qui non c’è industria culturale, che la vita per un intellettuale è più difficile. Io non debbo fare l´opinionista da Costanzo o tenere una rubrica su un settimanale illustrato, quindi questa condizione non mi pesa; ho pubblicato con importanti editori nazionali e non saprei vivere altrove. A Napoli mi legano i miei studi, l´insegnamento presso l´Accademia di Belle Arti, il piccolo borgo dove vivo, Cappella, che non c´è su nessuna carta geografica, ma per me è importante come Cuma, Baia, Pozzuoli, con il loro fascino di tufo, terme, statue romane, spettri che salgono dai numerosi colombari di zolfo, di laghi, che mi esaltano e mi commuovono. Napoli ed il mondo flegreo sono uniti da una medesima condizione: il conservare, a dispetto della modernità, un´irriducibile anima arcaica e l´essere continuamente fatti oggetto di saccheggio, degrado, barbarie. Ma vivere qui, significa stare in contatto con stimoli creativi forti. Per me è come ascoltare improvvisi echi, farsi portare per mano dal sortilegio”.

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Leggiamo una riflessione del poeta[4] sulla rivista Poesia: “La sensazione che ogni volta mi segue è di stupore e malessere insieme. Sembra di respirare un’aria incantata e di muoversi in un labirinto. Tutto sembra fermo in un tempo lontano, mai esistito, però allo stesso tempo vivo e ricco di timori, odori e richiami. (…). Quanto Napoli mi affascina e mi coinvolge con la sua straordinarietà di forme, comportamenti tanto Cuma, Fusaro, Cappella, Bacoli, Baia, Monte di Procida, Pozzuoli, con il loro fascino intriso di tufo, pietre antiche, terme, statue romane, salgono dai numerosi colombari di tufo, di laghi, mi esaltano, mi fanno riflettere, mi inquietano e mi commuovono.”

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È probabile che il poeta campano sia debitore a un grande della sua terra, il nolano Giordano Bruno, per questa sua filosofica concezione degli elementi dell’universo: una concezione “naturalistica”, capace di immaginare il mondo come un corpo unitario, fondato sulla continuità fra componente vegetale, animale e umana.                  

                                      

L’uomo, con le sue paure, le sue speranze, le sue emozioni, è parte integrante dei processi della natura. Ed è per questo che non esiste un confine tra i sentimenti e i ricordi, tra gli oggetti del presente e le rovine del passato, tra i frammenti del paesaggio e i fragili movimenti dell’anima.

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Nei suoi versi Sovente è riuscito a dare vita a un determinato senso del luogo. Una cosa non da poco, perché non implica semplicemente un paesaggio visibile o dei riferimenti geografici particolari, bensì, più profondamente, uno spessore, radici. Ed è proprio, come fa notare Roberto Galaverni[5], il paradosso di questo concretissimo paese nascosto a innescare la sua poesia, che infatti è piena di fratture e cavità telluriche, di antri oscuri, di «erosioni e deflagrazioni», di reperti archeologici o mitici, di «mostri e chimere» che affiorano qui e ora, nel tempo della storia.

 

[1] Michele Sovente, L'arte come enigma e come ricerca, in Poesia, Mensile internazionale di cultura poetica n. 188, Crocetti editore.

[2] Michele Sovente- Cumae, edizione critica e commentata a cura di Giuseppe Andrea Liberti, Quodlibet, 2019.

[3] Mario Franco, Michele Sovente. Poeti contro paroliberi la nostalgia è il verso, da I volti di Napoli, La Repubblica.it, 21 novembre 2004.

[4] Michele Sovente, Malessere e sortilegio tra Napoli e i Campi Flegrei, in Poesia, Mensile internazionale di cultura n. 57, dicembre 1992, Crocetti editore. 

[5] Roberto Galaverni, Una lingua sola non basta per scavare a Cuma, La Lettura – Corriere della Sera, 19/01/2020.

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i campi ardenti

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il legame con la terra

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